UNITA’ D’ITALIA - GLI ESERCITI PREUNITARI

Carta geografica dell'Italia nel 1848

Nel numero del 15 febbraio del decorso anno 2010 de “La più bela fameja”, con un breve articolo su “La nascita dell’esercito italiano”, abbiamo riassunto i tanti problemi che connotarono la complessa operazione della unificazione dei veri eserciti preunitari in un esercito nazionale. Ma come si configuravano quegli eserciti? Quale era la loro dimensione e con quali criteri erano organizzati? Cercheremo di dare ora qualche indicazione su ciascuno di essi. I due Stati militari dell’Italia preunitaria, il regno delle due Sicilie e il regno di Sardegna,  avevano seguito il modello dell’esercito francese, quello del così detto esercito di qualità o esercito di caserma, che privilegiava una aliquota di volontari e di congedanti, disposti a raffermarsi, e una aliquota della leva da incorporare. L’esercito borbonico, in base alle riforme del 1834 e 1837, si presentava, perciò, fortemente caratterizzato come un esercito di caserma. In primo luogo, vi erano seimila mercenari svizzeri, vale a dire professionisti stranieri, poi un grosso nucleo di soldati stanziali con ferma di otto anni, rinnovabile per altri otto e, infine, aliquote piccole e ridotte di sette classi di leva. La coscrizione obbligatoria era un principio privo di applicazione in quanto prevedeva numerosi casi di esenzione e dispensa: la Sicilia era esente così come le isole minori, i comuni con meno di cinquecento abitanti, coloro che esercitavano mestieri marittimi e professioni intellettuali, gli studenti liceali e universitari. Il gettito normale di una classe di leva era di circa 40mila uomini, ma l’organico prevedeva un fabbisogno di soli 8mila, per la maggior parte reclutati su base volontaria. Apprezzato a livello internazionale per il suo carattere professionale e per la elevata preparazione degli ufficiali di artiglieria e genio, formati nella migliore scuola per ufficiali d’Italia, l’Accademia della Nunziatella, l’esercito borbonico subì una crisi profonda dopo il 1848. Le scelte politiche di Ferdinando II di Borbone, che rinunciava alla prospettiva riformista e costituzionalista, determinarono l’impiego delle truppe soprattutto nelle repressioni interne contro i movimenti democratici e contro le rivolte nelle diverse province, in particolar modo il movimento indipendentista siciliano. Nello stesso tempo, la parte migliore dell’ufficialità lasciava il regno per andare a combattere la guerra nazionale contro l’Austria. L’opposizione ai fermenti risorgimentali e la preoccupazione di mantenere un rigido controllo interno portarono alla rinuncia ad una forza armata efficiente e organizzata e alla scelta di legare alle fortune della dinastia strati sempre maggiori di popolazione. L’esercito fu trasformato in una struttura pletorica di circa 100mila uomini, privo di quadri adeguati e di ambizioni strategiche. Dopo il 1849 si accentuò la tendenza di fare un esercito in prevalenza di professionisti, un esercito di polizia, una specie di grande rifugio per la massa dei disoccupati e degli spostati. Si creava, così, un grande ente di sussidio per la disoccupazione, con un gran numero di soldati di bassa forza, un terzo dei quali, secondo le stime degli storici Piero Pieri e Giorgio Rochat, scompariva nelle retrovie ed esisteva solo nei libri-paga. Diversa e opposta è la vicenda del regno di Sardegna, nel quale, concluso il biennio 1848-49, il giovane re Vittorio Emanuele II e la sua classe dirigente confermarono le scelte costituzionaliste e abbracciarono con convinzione la causa risorgimentale. La riforma dell’esercito fu affidata al generale Alfonso Ferrero della Marmora, Ministro della Guerra, quasi ininterrottamente, dal 1848 al 1860. Partendo dalla analisi dei limiti emersi nelle campagne del ‘48 e ’49, La Marmora si orientò verso l’esercito-qualità. La legge, approvata il 20 marzo 1854, prevedeva che una aliquota di coscritti rimanesse sotto le armi per cinque anni e per altri sei nella riserva; una seconda aliquota, chiamata “seconda categoria”, era tenuta ad un addestramento di quaranta giorni, con l’obbligo di non prendere moglie nei cinque anni successivi (disposizione soppressa nel 1857); i restanti erano esonerati dal servizio. La determinazione delle aliquote era fissata dal governo, mentre la scelta dei giovani da incorporare era affidata al sorteggio. I più abbienti potevano farsi sostituire a pagamento. La Marmora dedicò le sue attenzioni al miglioramento della cultura non solo degli ufficiali, ma anche dei sottufficiali e si preoccupò di elevare, materialmente e spiritualmente, la condizione dei soldati. In questa prospettiva, vennero create la scuola di fanteria di Ivrea e la scuola di cavalleria di Pinerolo, scuole reggimentali per sottufficiali e soldati e persino piccole biblioteche militari. Sul piano organizzativo, nel 1853 si creò una vera Intendenza per il coordinamento delle sussistenze e si perfezionò il collegamento tra ministero della Guerra ed esercito per mezzo di ispettori d’arma e di intendenti militari. Per quel che riguardava gli avanzamenti di carriera, La Marmora sostituì progressivamente il criterio della scelta a quello tradizionale della anzianità. Alla solidità organizzativa e alla preparazione culturale, maturate nel decennio 1849-59, l’esercito piemontese aggiungeva, come elemento di forza, gli strettissimi rapporti tra monarchia, gerarchie militari e classe dirigente politica, ereditati da secoli di storia sabauda. D’altra parte, l’esercito aveva rappresentato lo strumento indispensabile di una politica che mirava a mantenere la propria autonomia e a sfruttare le congiunture internazionali favorevoli in vista della espansione del piccolo Stato situato a cavaliere delle alpi. Gli altri eserciti unitari erano poca cosa. Nel ducato di Modena e Reggio e in quello di Piacenza e Parma operavano poche migliaia di uomini, destinati prevalentemente a compiti di polizia, nello Stato pontificio la forza era di 16mila unità,  scarsamente addestrate e prive di motivazione. Diversa era la situazione in Toscana, dove il generale Cesare de Laugier, veterano napoleonico e comandante, nel 1848, dei reparti toscani a Curtatone e Montanara, aveva avviato un processo di riforme. Licenziato dal Granduca il de Laugier, per le sue idee liberali, l’opera fu continuata dal generale veneto Federico Ferrari di Grado, un ufficiale dell’esercito austriaco, molto apprezzato dal maresciallo Radetzky. Ferrari armò una sola divisione, ma ben solida, forte di dieci battaglioni, ringiovanì e selezionò l’ufficialità e inquadrò le truppe secondo il regolamento adottato dall’esercito austriaco. Alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza, la Toscana disponeva di un esercito piccolo ma adeguatamente addestrato, sostenuto da una discreta cultura e da un carattere nell’insieme fiero e marziale, “nel quale, a dispetto delle intenzioni del Ferrari, si era fatalmente sviluppato anche il sentimento dell’italianità”.

Sintesi da Gianni Oliva “Soldati e Ufficiali” – L’esercito italiano dal Risorgimento a oggi.
A.Mondadori, 2009.

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